venerdì 12 dicembre 2025

Peggio che andar di notte

Peggio che andar di notte

Il signor Menicucci, persona di specchiata correttezza e moderato entusiasmo per la vita, una mattina si svegliò con la sensazione che qualcosa stesse per andare storto. Non terribilmente storto, solo appena un po’, quel tanto che basta a rendere la giornata interessante per chi la vive e leggermente fastidiosa per chi la ascolta raccontare.

Aprì la finestra e si trovò davanti un cielo di un grigio così incerto che non sembrava decidere se voleva piovere, schiarire o dichiararsi neutrale. «Ottimo», commentò Menicucci, «un cielo indeciso mi somiglia». Mentre si allacciava le scarpe, si accorse che una delle due aveva deciso di farsi trovare già slacciata, come se avesse capito che quel giorno non avrebbe sopportato neanche il minimo sforzo.

Quando uscì di casa, inciampò in una foglia secca. Non una radice, non un gradino, non il cane del vicino. Una foglia. «È già peggio che andar di notte», borbottò, non sapendo bene perché. Non era mai andato di notte in alcun luogo particolarmente problematico, ma gli avevano assicurato che la formula si applicava a qualunque situazione infelice.

Camminando verso l'ufficio, incontrò la signora Dombasini, veterana del quartiere e commentatrice non ufficiale del comportamento altrui.
«Signor Menicucci, ha una faccia!» disse lei, come se la faccia fosse un accessorio opzionale.
«Giornata difficile…»
«Poverino. Peggio che andar di notte, eh?»
«Proprio così», rispose Menicucci, felicissimo che qualcuno confermasse le sue intuizioni linguistiche.

Arrivò alla fermata dell’autobus proprio mentre l’autobus si allontanava con aria di chi ha altri impegni più importanti. Menicucci gli corse dietro per tre passi, abbastanza da far credere agli astanti che ci tenesse davvero, ma non abbastanza da sudare.
«Poteva andare peggio», disse a un ragazzo che stava lì.
«Come?»
«Poteva essere notte.»
Il ragazzo lo guardò come si guarda uno che racconta un proverbio senza garanzia di funzionamento.

All’ufficio lo accolse il collega Serafin, noto per il suo entusiasmo ad ansa invertita: più gli succedevano cose buone, più diventava pensoso.
«Menicucci, non abbiamo internet.»
«Ah.»
«E il telefono non funziona.»
«Capisco.»
«E il capo è entrato urlando che oggi vuole efficienza.»
«Meraviglioso», concluse Menicucci. «Siamo ufficialmente peggio che andar di notte.»

A quel punto Serafin si sentì autorizzato a credere che l'espressione fosse una notizia meteorologica, quindi prese la giacca. «Se siamo peggio che andar di notte, io vado a prendere un caffè.»

Durante la pausa, Menicucci pensò che forse sarebbe stato utile capire davvero cosa significasse l’espressione. La sua curiosità pratica lo portò a chiedere al barista:
«Scusi, lei cosa intende quando dice peggio che andar di notte
Il barista, che prendeva le domande filosofiche come complimenti alla qualità del suo caffè, rispose:
«Vuol dire che va tutto a tentoni. Senza luce. Senza sapere dove si mette il piede.»
«Ah, quindi metaforico.»
«Sì, ma anche letterale. Si ricordi che la notte si inciampa più spesso.»

Menicucci annuì. In effetti, la metafora della notte gli sembrava coerente con la foglia secca, l’autobus fuggitivo e l’internet assente. Tutto rientrava in una certa logica pessimista ma ordinata.

La giornata proseguì tra piccoli disastri di routine: la stampante decise di produrre fogli bianchi con la presunzione di essere comunque utile, il capo pretese una relazione che Menicucci non ricordava di aver mai promesso, e qualcuno rubò l’ultimo yogurt al pistacchio dal frigorifero comune. Nessuno confessò il furto, nonostante un interrogatorio spontaneo e gentile condotto dallo stesso Menicucci sotto forma di «se per caso siete stati voi, non preoccupatevi, ma lasciatemi un post-it».

Al tramonto, che era solo un’alba al contrario ma più stanca, Menicucci tornò a casa. Aprì la porta, entrò, si guardò intorno. Tutto era al suo posto, tranne il gatto, che lo guardava con quell’aria da filosofo domestico capace di stabilire la graduatoria delle sciagure con un solo miagolio.

«Be’, caro gatto», disse Menicucci slacciandosi finalmente la scarpa ribelle, «oggi è andata così. Peggio che andar di notte.»
Il gatto lo fissò immobile, poi si voltò e si allontanò con dignità, come se volesse ricordargli che lui, la notte, ci andava spesso e senza mai lamentarsi.

Menicucci sorrise. Si versò un bicchiere d’acqua, a cui l’acqua rispose uscendo dal bicchiere con un entusiasmo imprevisto. Asciugò tutto con rassegnazione e una punta di orgoglio, perché ormai era un esperto dell’argomento.

«Eppure», pensò, «se questa è la notte, ci si vede anche abbastanza bene.»

E concluse che, forse, peggio che andar di notte è solo un modo per dire che ci capita di inciampare nelle nostre stesse foglie secche, mentre la vita ci osserva con l’aria di chi ne sa di più e non ce lo dice.

E nonostante tutto, si può sempre tornare a casa senza bisogno di una torcia.

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