Il compagno Trapasso da Soverato con furgone
(1998, Bologna - Soverato. Flashback fra ideali evaporati e nuovissime insegne)
Gennaro Trapasso aveva ventitré anni e una collezione invidiabile di cassette duplicate, con calligrafia incerta sui bordi, spesso titolate con versi di canzoni che oggi farebbero sorridere, ma che allora suonavano come formule magiche. Tipo: “Il cielo è di tutti, ma non è di nessuno” (Lolli). Oppure: “Canzone della Bambina Portoghese” (Guccini, lato B). La sua vita era divisa tra due città e due tempi: Soverato, dove suo padre era sindaco e gestiva con zelo da capocantiere una delle sezioni più attive del PDS, e Bologna, dove Gennaro frequentava il DAMS, studiava cinema, viveva in una casa con altri tre fuorisede e faceva da archivista emotivo di una sinistra che cambiava pelle troppo in fretta. Nel 1998 il PDS cambiò nome e logo diventando appunto DS, ossia Democratici di Sinistra. Una quercia, più piccola, sostituì la vecchia falce e martello. Più inclusiva, dissero. Più europea. Più moderna. Gennaro si sentì come se gli avessero venduto un album in vinile e poi gli avessero rifilato una compilation su CD masterizzato male. «Ma cos’è sta roba?», diceva ai compagni della sezione universitaria. «Sembra un titolo di Bennato ma scritto da Veltroni». Ridevano tutti, ma amaramente, come chi si ferma in un piccolo bar di periferia, assaporando uno Jägermeister a temperatura ambiente. Passo – come ormai lo chiamavano tutti – non era il tipo da collettivo arrabbiato o da assemblea permanente in aula magna. Era un nostalgico lucido. Cresciuto a sigle sindacali e panini con la parmigiana portati alle feste dell’Unità, portava dentro una bussola interna che puntava sempre verso il PCI, anche se ormai esisteva solo nei cori dei centri sociali e nelle locandine sbiadite degli anni Ottanta. La sinistra, per lui, era anche – soprattutto – una questione musicale.
Oltre ai
cantautori canonici come De Gregori, Rino Gaetano e Edoardo
Bennato (che ascoltava a ripetizione nei lunghi viaggi in treno tra Bologna
e Catanzaro), a Bologna scoprì due cose che gli cambiarono il modo di
respirare: Claudio Lolli, in un’aula del DAMS, con una
lezione-performance che sembrava più una veglia funebre per i sogni
rivoluzionari; e Francesco Guccini, riscoperto e rivalutato grazie
all’uscita di D’amore di morte e di altre sciocchezze, un disco che
Gennaro consumò fino allo sfinimento. Per lui quel disco era il passaggio da
PDS a DS, dal sogno collettivo alla gestione dell’io, dal megafono alla
citazione da sottolineare. Ma non solo. In camera sua, nel piccolo appartamento
di via Irnerio, accanto ai manifesti di La Palombella Rossa e Ecce
Bombo, c’erano le locandine sdrucite dei CSI – con Giovanni Lindo
Ferretti al suo apice profetico – e ritagli di giornale sulla scena wave
fiorentina degli anni Ottanta. Passo amava i Diaframma, i primi Litfiba,
i dimenticatissimi Moda, e fantasticava su un’Italia alternativa che
ballava nel buio delle cantine con le giacche di pelle e i testi decifrati solo
dai cuori in tumulto.
Nelle sue
passeggiate solitarie per Bologna, tra il Giardini Margherita e il Cinema
Lumière, Gennaro immaginava un film mai girato. Una pellicola ambientata in una
sezione di partito in disarmo, con i volontari che passano da Berlinguer a
internet senza passare dal via. Un po’ Salvatores, un po’ Moretti,
un po’ Guida Galattica per Autostoppisti, ma riscritta sulla Salerno-Reggio
Calabria, con autogrill filosofici e compagni che cercavano il senso della
militanza in un panino al tonno. Suo padre, da Soverato, lo chiamava ogni
lunedì mattina. «E allora, Genna'. Che aria tira a Bologna? Ti sei iscritto ai
DS?». E lui, guardando una videocassetta di Il Portaborse, rispondeva: «Sto
aspettando che qualcuno mi convinca. Per ora, papà, ho solo nostalgia. E la
nostalgia non paga la tessera». Nel marzo del ‘98, partecipò a un’assemblea
cittadina sui nuovi orizzonti del partito. C’erano i giovani turchi, qualche
assessore illuminato, e persino un tizio che distribuiva copie fotocopiate di La
mucca pazza della sinistra europea, un pamphlet underground di cui si perse
ogni traccia. Passo prese la parola. Tremava. Disse solo: «Cambiare nome non
serve se dimentichiamo chi eravamo. Le band non diventano migliori solo perché
cambiano la copertina».
Silenzio. Poi
qualche applauso. Poi il buffet. Opera buffa, per dirla con un titolo del
Maestrone.
Quell’estate, tornato a Soverato, trovò la sezione tappezzata di nuovo materiale. Il rosso era diventato più spento, il font più moderno. Suo padre, orgoglioso, gli mostrò il nuovo gadget: una penna stilografica con il logo DS. Gennaro la prese, la girò tra le dita, e disse: «Sembra una penna di banca. Non di partito». Passò il pomeriggio ad ascoltare Linea Gotica dei CSI e a sistemare le VHS dei film che aveva registrato a Bologna: Caro Diario, Trainspotting, Palermo Milano – Solo andata. Prese il diario e scrisse, con inchiostro blu: “1998. Il partito è cambiato. Io no. Ma forse dovrò cambiare io. Intanto metto su Guccini. La parte di ‘Canzone delle domande consuete’. Quella che mi fa venire voglia di studiare e incazzarmi. Quella che sembra scritta per noi, anche se noi non sappiamo più chi siamo.”
E da qualche parte, nel suo cuore, la falce e il martello ballavano un lento con Giovanni Lindo Ferretti, mentre Nanni Moretti faceva jogging sul lungomare calabrese, con una maglietta “I ❤️ Togliatti” e il walkman Sony acceso su Siberia dei Diaframma. Questa era la storia del compagno Gennaro Trapasso. Partito con furore da Soverato, a bordo del furgone beige del cugino che gestiva un negozio di mobili in quel di Satriano.
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