martedì 15 aprile 2025

Bologna '99: il futuro è in VHS




Bologna '99: il futuro è in VHS


Non era Capodanno, ma nell’aria si avvertiva lo stesso senso d’attesa febbrile e leggermente ridicola. Fine dicembre, 1999. Bologna era coperta da un cielo grigio, uniforme, tipo sfondo Windows 95. Giuliano era salito in treno da Cosenza con uno zaino pieno di cassette, volantini dell’Unione degli Studenti e una copia sgualcita della rivista “Reset”. Aveva diciannove anni e un’idea molto confusa di cosa volesse dire “vivere la sinistra da dentro”. La città era un crocevia di culture, fughe e ritorni. Gli studenti occupavano ancora qualche aula, ma la Pantera – quel movimento che alla fine degli anni Ottanta aveva fatto tremare i rettorati – era ormai solo un graffito sbiadito dietro la mensa universitaria. Al suo posto, un proliferare di collettivi nuovi, tutti con nomi che sembravano titoli di dischi punk o concept album krautrock: Frattura Aperta, Nodo Intestinale, Quinto Stato d’Alterazione. 

Giuliano si sentiva piccolo in mezzo a loro, ma anche stranamente a casa. Nel cuore del DAMS, si organizzavano proiezioni notturne su VHS recuperate da chioschi falliti e biblioteche dismesse. Una sera toccò a Strange Days di Kathryn Bigelow. “Questo è il nostro Millenium Bug”, disse qualcuno in fondo alla sala, mentre Lenny Nero correva per una Los Angeles distopica armato di ricordi digitali e sensi di colpa. Subito dopo, partirono i Doors con Strange Days, la traccia. Qualcuno gridò “è un segno!”, qualcun altro si accese un cannone, un terzo si mise a piangere pensando a come sarebbe stata la sinistra italiana nel nuovo millennio. Nessuno ebbe ragione. Fu durante una di queste notti, davanti a una macchina del popcorn guasta, che Giuliano conobbe Silvia. 

Studiava filosofia teoretica, indossava un cappotto militare sovietico e leggeva Douglas Adams come fosse un testo sacro. “Sai qual è il significato della vita, dell’universo e di tutto quanto?” gli chiese. “Quarantadue?” azzardò lui. “No. Sopravvivere alla Salerno-Reggio Calabria in pieno agosto”. E risero. Poi andarono insieme a una jam session in uno squat chiamato “La Plancia dell’Ammiraglio Ackbar”. Silvia era convinta che l’unica vera rivoluzione passasse dalla risata. Citava La Guida Galattica per Autostoppisti in mezzo ai comizi, portava una borraccia con scritto “Don’t Panic” e traduceva Marx come se fosse un manuale per il campeggio. Fu lei a raccontare a Giuliano dei Wu Ming, nati proprio lì, in quel periodo, come collettivo di scrittura post-lutherblissettiana. “Non siamo solo scrittori. Siamo dispositivi narrativi”, gli spiegò un giorno durante un presidio contro la privatizzazione dei trasporti locali. Giuliano non capì del tutto, ma annuì convinto. 

Le giornate si dividevano tra assemblee confuse, piadine mangiate in piedi e interminabili discussioni sul futuro della sinistra antagonista. Alcuni sognavano una nuova Internazionale Europea. Altri volevano solo un nuovo centro sociale con un impianto audio decente. Le notti, invece, erano tutte per il punk. La scena italiana viveva un momento d’oro: Kina, Negazione, Punkreas, ma anche gruppi locali con nomi assurdi tipo "Lenin e i Suoi Cani" o "Anarchia Digestiva". Ogni concerto sembrava l’ultimo prima dell’apocalisse del 2000.

Intanto, in libreria, impazzavano Andrea De Carlo, Baricco ed Enrico Brizzi. Era il momento in cui anche i più arrabbiati finivano a leggere City sotto una coperta logora. Giuliano alternava De Carlo a Trotzkij, Baricco a Toni Negri. Confusione? Forse. Ma c’era un’energia vera, qualcosa che profumava di possibilità. Una generazione che, tra un disco degli Assalti Frontali e un monologo teatrale sul neoliberismo, cercava un posto nel mondo. Magari un posto in cui il sindaco non fosse un ex democristiano col cappotto di loden. 

Nella notte del 31 dicembre 1999, mentre mezza Italia temeva che i computer si suicidassero per colpa del Millenium Bug, Giuliano si trovava su un tetto vicino via Zamboni, con una bottiglia di spumante da discount e una radiolina sintonizzata su Radio Città del Capo. La città sembrava sospesa. Nessuna esplosione, nessun collasso globale. Solo fuochi d’artificio e un DJ che metteva i Litfiba seguito da Perfect Day di Lou Reed. Fu in quel preciso istante che Giuliano pensò che forse, dopotutto, il nuovo millennio poteva non essere un disastro. Che magari c’era ancora tempo per salvare la sinistra. O almeno per fare un collettivo degno di questo nome. Poi la radiolina gracchiò: “A voi la linea, compagni. L’anno 2000 è arrivato. E con lui la nuova era. O almeno una nuova scusa per essere in ritardo alla prossima assemblea.” 

Risero tutti, brindando con vino caldo e parole confuse. E così Bologna, nel cuore della notte, sembrò per un attimo la capitale temporanea di un mondo migliore, scritto a mano su un volantino stampato male, ma pieno di speranza.

(Tratto da Le assemblee non finiscono, ma si spostano su Telegram) 

Un racconto di Dario Greco

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