sabato 12 aprile 2025

2006: Top Gun e il fantasma di Togliatti


2006: Top Gun e il fantasma di Togliatti


Il festino era cominciato con le migliori intenzioni: vino rosso del discount, taralli pugliesi comprati a peso e playlist di Manu Chao. Tutto molto 2006. C’erano studenti del Dams, qualche Erasmus argentino e boliviano, e naturalmente lui: Giuliano, il mio amico tesserato di Rifondazione, il quale sosteneva che in Italia non esistevano più le mezze stagioni né la vera sinistra. Parlavamo di cinema, come fanno i giovani colti o che almeno vogliono sembrare tali. Si discuteva se Tarantino fosse un genio o un feticista con la sindrome di Peter Pan, quando saltò fuori il nome di Tony Scott. Io, entusiasta, menzionai Top Gun.

“Top Gun è una figata,” dissi con l’entusiasmo che solo un Tom Cruise sudato può suscitare. “Tutto quel testosterone, le moto, i jet...” Giuliano mi guardò come se avessi appena difeso l’invasione dell’Iraq. “Mai visto,” disse, mentre un’ombra passava dietro ai suoi occhiali tondi alla Pasolini. “Come sarebbe a dire mai visto?” chiesi, sconvolto. “Me l’ha proibito mio padre,” disse con tono solenne. “Diceva che era propaganda imperialista. Un film-spot della NATO. Per lui Top Gun era come Via col vento ma con le bombe al napalm.” Ci fu un silenzio strano. Persino i ragazzi del Dams smisero di rollarsi le sigarette per un secondo. A quel punto intervenne Sebastián, un argentino con una maglietta di Diego Maradona e una birra in mano. “Nooo boludo, Top Gun è un clásico! Cuando Tom Cruise se pone los lentes y dice ‘I feel the need... the need for speed!’ è come vedere Messi segnare contro l’Inghilterra.” Giuliano, visibilmente turbato, cominciò a sgranocchiare nervosamente dei taralli. “Il problema,” disse, “è che la nostra generazione è cresciuta senza anticorpi. 

Nessuno ci ha vaccinato contro Stallone, Schwarzenegger, o Tom Cruise. Mio padre invece sì. Per lui Top Gun era come leggere Il Giornale: un atto di tradimento culturale.” “Ma scusa,” intervenne una ragazza boliviana con i dread, “non è anche Battleship Potemkin una forma di propaganda?” Giuliano la fissò per un secondo come se le avesse chiesto se Fidel Castro fosse vegano. Poi scosse la testa: “Sì, ma almeno Potemkin aveva Eisenstein. Top Gun aveva... Kenny Loggins.” Ci fu una pausa. Poi Sebastián alzò il volume dello stereo dove partiva Danger Zone. Alcuni ballarono. Giuliano restò fermo, visibilmente combattuto. In fondo, dentro di lui, forse sentiva che avrebbe potuto amare quel film, se solo suo padre non gli avesse insegnato che un missile aria-aria equivaleva a una sconfitta ideologica.

“Il futuro era Buffon, ma Bertinotti si era abbonato a Sky tradendo l’idea comunista”

Nel mezzo della discussione sull’importanza del Vietnam come esperienza formativa per la sinistra globale, qualcuno stappò una Moretti calda e gridò: “Raga! Ma vi rendete conto che tra tre mesi vince Prodi?” Una risata soffocata. Giuliano fece un mezzo sorriso. “Sì, e magari vinciamo pure i Mondiali, già che ci siamo…”

Ci fu un attimo di silenzio. Poi il flashforward, improvviso come una visione da peyote zapatista.

Luglio 2006. L’Italia è campione del mondo. Materazzi si fa insultare da Zidane con la pazienza di un frate trappista, poi lo provoca a tal punto che quello gli rifila una testata con effetto sonoro da cartone di Tex Avery. A Cosenza, il festino si è evoluto in una comune semipermanente. Giuliano, in preda all’euforia post-vittoria, indossa una maglietta con scritto “Cannavaro antifascista” e ha finalmente deciso di guardare Top Gun, ma solo in VHS e solo se lo doppiava Oreste Rizzini. Fausto Bertinotti, intervistato dalla Rai mentre sorseggia prosecco davanti a un televisore al plasma (“mi hanno convinto a fare Sky per seguire il Tour de France”), dichiara: “È una vittoria della collettività, dello spirito di squadra, del centrosinistra moderatamente entusiasta.” Nel frattempo, Ricky Gianco viene riscoperto da un DJ bolognese che lo rimixa con i Daft Punk durante la Festa dell’Unità 2006 a Bologna, mentre un banchetto raccoglie firme contro la globalizzazione tra una piadina e un dibattito sull’eros ai tempi del liberismo.

“Cosenza chiama Mosca… Buenos Aires risponde”

Il festino era cominciato con due casse acustiche sgangherate e una tanica di vino di Cirò recuperata dal nonno di Giuliano, un uomo che ancora si commuoveva davanti a un comizio di Enrico Berlinguer registrato su musicassetta. Gli invitati erano un miscuglio riuscito tra l’area artistico-filosofica del DAMS, tre studenti Erasmus (due argentini e un boliviano) e una ragazza di Scienze Politiche che parlava solo per citazioni di Pasolini. Le pareti erano tappezzate di volantini. Da una parte, la propaganda: “UN’ALTRA ITALIA È POSSIBILE” in stampatello, con Fausto Bertinotti che sorrideva con la sua solita espressione da filosofo beat in pensione. 

Dall’altra, il contrasto surreale: un poster sbiadito con Prodi in bicicletta, accompagnato dallo slogan “L’Italia che pedala unita”, che sembrava più un invito a una gita scout che una chiamata alle urne. Sul giradischi suonava una cassetta con la voce di Lucio Dalla che cantava Com’è profondo il mare, ma ogni tanto saltava e finiva sul lato B con Caruso mixata a un intervento di Bertinotti sull’articolo 18. 

Fu durante quella serata – quando qualcuno propose di rifare La corazzata Potëmkin con pupazzi animati e dialoghi in calabrese – che scoppiò l’idea: i sudamericani dovevano essere reclutati. Non era chiaro per cosa, ma Giuliano aveva deciso. “Compagni,” disse, salendo su una sedia con la bottiglia di aranciata in mano come fosse un microfono ONU, “dichiaro ufficialmente Gonzalo, Federico e Ernesto membri onorari della FGCI. Frontiera tropicale dell’internazionalismo mediterraneo.” “Si può fare?” chiese qualcuno. “L’ha fatto Fidel con Che Guevara,” rispose secco Giuliano. “E poi Ernesto ha un nome perfetto.” I tre, confusi ma lusingati, accettarono. 

Da quel momento, Federico diventò responsabile delle relazioni culturali con l’America Latina (cioè metteva i dischi di Mercedes Sosa), Gonzalo fu nominato coordinatore del subcomitato Rock en Español y Marxismo e Ernesto tenne una conferenza sulla guerriglia urbana nei quartieri di Rosario, che in realtà era solo una lezione di calcio su come eludere la polizia durante le partite clandestine.

Nel frattempo, l’Italia era immersa nella campagna elettorale più confusa e teatrale dal 1948. Bertinotti girava l’Italia con giacchette bianche che facevano molto “socialismo caraibico in trasferta”, mentre Prodi sembrava impegnato in un remake di Ladri di biciclette diretto da Ermanno Olmi. “Io voto Fausto perché sa ascoltare,” disse la ragazza di Scienze Politiche, mentre appendeva al muro una foto in bianco e nero del subcomandante Marcos che fumava una pipa dentro un campo romagnolo ricostruito in scala da studenti di architettura.  

“E Prodi?” “Prodi è il nonno che tutti vorremmo, ma non ci comprerebbe mai le sigarette.” 

Seguì un attimo di silenzio riflessivo, quasi commosso, come se avessero davvero perso un’occasione affettiva con il Professore di Bologna. Ma subito dopo, come nei migliori momenti di sincretismo politico e alcolico, spuntò fuori – da uno zaino decorato con adesivi del MST brasiliano e della Coca Cola con scritta ¡Revolución! – una bottiglia misteriosa. L’etichetta era scritta a mano: “Ron Zapatista – Distillato clandestino delle montagne del Chiapas”. 

Nessuno sapeva esattamente chi l’avesse portata, ma nel salotto si fece silenzio. Giuliano, galvanizzato dalla visione onirica e dal grado alcolico della missione, sollevò la bottiglia e dichiarò: “Una bottiglia di rum zapatista, “compagni, oggi qui, in questo salotto prestato alla Rivoluzione, proclamo l’ingresso ufficiale dei nostri fratelli latinoamericani nella FGCI! Come membri onorari! Con pieni diritti e doveri!” I presenti applaudirono, più per entusiasmo che per comprensione. 

Da un'idea de Lu Farmacista de Terni

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