venerdì 19 settembre 2025

Finite le ferie, arrivano i clown

 


Capitolo 1 – Il maestro influencer di Pontedera

Il maestro di arti marziali di Pontedera non era un tipo qualsiasi. Si chiamava Maurizio, ma sui social aveva deciso che il suo nome d’arte fosse Sensei Dragonfire 77, perché “Bruce Lee non avrebbe mai usato un nome banale da anagrafe comunale”. Era permaloso come un gatto che ti graffia se gli tocchi la coda, ma in fondo buono come il pane. Il problema era che, quando qualcuno non la pensava come lui, scattava subito l’offensiva digitale: “Te sei un clown, punto e basta. E io con i clown non ci parlo”.

Il suo tormentone, “clown”, ormai era diventato leggenda. C’era chi sosteneva che un giorno l’avrebbe stampato pure sui kimono della palestra. E forse lo avrebbe fatto, se solo non fosse stato troppo occupato a litigare nei commenti sotto i post del Comune di Pontedera.

Ogni mattina, dopo il cappuccino e la schiacciata con l’uva, accendeva il telefono e iniziava la sua battaglia quotidiana: un duello social contro politici, tifosi di calcio e aspiranti filosofi da tastiera. Nel suo mondo, i social non erano un passatempo, ma un dojo digitale, dove l’onore si difendeva con le emoji arrabbiate e le GIF di Bruce Lee.

Maurizio non amava il calcio. Non lo sopportava. Diceva che era il vero motivo per cui l’Italia stava andando a rotoli: troppa gente a guardare le partite e nessuno a studiare le tecniche del Wing Chun. Ogni volta che qualcuno provava a spiegargli che il calcio “unisce il popolo”, lui sbottava:
— Unisce? Unisce cosa? I clown allo stadio con la birra in mano!

In quel momento alzava le braccia come se stesse recitando una scena di Tarantino, convinto che la sua vita fosse una lunga pellicola di arti marziali girata tra la Valdera e Hollywood.

Capitolo 2 – Clown, Joker e King

Il maestro era convinto che la società intera fosse popolata da clown, come in un romanzo di Stephen King. A volte diceva ai suoi allievi più giovani:
— Ragazzi, vi ricordate It? Ecco, quella roba lì non era fantasia. È un documentario sulla realtà italiana.

Gli studenti ridevano, ma lui non stava scherzando. Al contrario, aggiungeva:
— Io li vedo ovunque. Al bar, in televisione, persino a fare la fila alla posta. Pagliacci! Tutti con i nasini rossi invisibili!

Un giorno un allievo gli fece notare che anche il Joker di Batman era un clown. Il maestro si fermò, incrociò le braccia e rispose:
— Joker almeno ha un codice morale. Malato, ma ce l’ha. Qui invece siamo circondati da clown senza arte né parte. Non hanno nemmeno il fascino del male.

In quei momenti sembrava un predicatore apocalittico, un po’ comico, un po’ tragico, come un personaggio secondario di C’era una volta a Hollywood che però si credeva protagonista.

La sua palestra era piena di poster di Bruce Lee, il suo mentore spirituale. Ogni volta che citava il Maestro, la sua voce cambiava tono. “Be water, my friend”, diceva, anche se poi, due minuti dopo, insultava un utente su Facebook perché aveva scritto che il sushi non era granché.

Le discussioni digitali erano epiche. Una volta litigò per 72 commenti consecutivi con un tifoso della Fiorentina che lo aveva preso in giro dicendo: “Oh Sensei, ma un ti guardi mai una partita?”. Maurizio, furibondo, aveva risposto con un lungo papiro filosofico in cui sosteneva che Bruce Lee avrebbe rotto tutti i palloni con un calcio volante pur di salvare i giovani dall’ignoranza. Alla fine, concluse con il suo solito: “Te sei un clown”.

I follower, divertiti, iniziarono a commentare con GIF di clown ballerini e faccine buffe. Involontariamente, il Sensei stava diventando virale.

Capitolo 3 – Il dojo social e la lotta finale

La palestra del maestro non era grande: due stanze, un tatami consumato e un piccolo ufficio dove teneva la telecamera sempre pronta. Perché ogni allenamento diventava anche contenuto. Lui lo diceva spesso:
— Oggi senza social non sei nessuno. Io vi insegno il Kung Fu, ma vi insegno anche a combattere gli haters.

Il suo sogno era fare un film alla Karate Kid, ma ambientato a Pontedera. Il protagonista sarebbe stato un ragazzino spaesato che trovava nel maestro Dragonfire 77 la guida spirituale. Solo che invece di combattere contro Cobra Kai, si sarebbe scontrato con una gang di ultrà del Pisa Calcio. “La vera lotta è culturale”, diceva il Sensei. “Il nemico non è un dojo rivale, ma l’ignoranza collettiva… e i clown”.

Una volta si spinse ancora oltre. Fece un video su TikTok, vestito con una maschera da clown che aveva comprato al mercato, per denunciare la decadenza del Paese. Con tono drammatico, urlava:
— Finite le ferie, entrino i clown! Ma io non mi arrendo! Io combatterò fino all’ultimo like!

Il video ebbe 50.000 visualizzazioni. Alcuni ridevano, altri lo prendevano sul serio, ma tutti condividevano. Nel suo piccolo, Maurizio era diventato una celebrità. Persino un giornalista locale gli dedicò un articolo: “Il maestro di arti marziali che combatte i clown sui social”.

Eppure, quando la sera chiudeva la palestra, rimaneva da solo a guardare un vecchio DVD di Bruce Lee. Lo guardava con occhi lucidi, come se stesse parlando direttamente a lui.
— Maestro, io ci provo, ma questi clown mi fanno uscire di testa.

La verità era che sotto l’armatura del Sensei influencer, Maurizio restava un uomo buono, convinto che le arti marziali potessero salvare almeno un pezzetto del mondo. E se per riuscirci doveva gridare contro i clown virtuali e sembrare un po’ folle, beh, tanto meglio.

Dopo tutto, come diceva lui:
— Se devo vivere in un film, che almeno sia diretto da Tarantino.

E così, tra un calcio volante e una risata amara, il maestro Dragonfire 77 continuava la sua crociata personale. Il mondo intorno a lui era un circo, ma lui sapeva di avere un compito preciso: allenare la prossima generazione a distinguere i guerrieri veri dai clown travestiti da pensatori.

Perché alla fine, lo sapeva bene, i clown non finiscono mai davvero. Sono sempre lì, pronti a spuntare.
E allora, finite le ferie… entrino i clown.

mercoledì 18 giugno 2025

Luca contro il Deep State (con le tasche piene di Satoshi)



Luca Beltrami scriveva di criptovalute da sei anni. Ma lui, in fondo, odiava le criptovalute. Era un uomo di sinistra. Vero, di quelli veri. Cresciuto tra centri sociali e assemblee interminabili, l’unico wallet che riconosceva era quello della classe operaia. Detestava le cravatte, i fiscalisti, le startup. Parlava ancora di “lotta di classe” mentre l’algoritmo di YouTube gli suggeriva video su Layer 2, staking e CBDC. Eppure, ogni giorno, scriveva articoli su Bitcoin, Ethereum, il futuro dell’economia decentralizzata e, ultimamente, sulle meme coin con il nome di gatti ubriachi. Era diventato una voce autorevole del settore, anche se nessuno sapeva che dietro quei pezzi brillanti, firmati “L. Beltrami”, si nascondeva un anarchico marxista con l’adesivo “Free Assange” sul frigorifero.

Tutto filava liscio, fino al giorno in cui sentì una voce.

Era un pomeriggio come tanti. Luca stava cercando di scrivere un editoriale su un nuovo DEX rivoluzionario quando, all’improvviso, una voce tonante uscì dalle casse del computer. Non Spotify, non un video in background. Una voce viva. «The Fed è il vero nemico, Luca. La tua banca ti odia. E il Deep State controlla la tua caffettiera.» Luca sobbalzò. Fece cadere il bicchiere di Kombucha sul tappetino del mouse. Guardò lo schermo: niente. Tutto normale. Ma poi, in un angolo della finestra di Chrome, comparve un’icona. Una silhouette arancione. Un ciuffo familiare. Era lui. Donald. J. Trump. Ma non un video. No. Una miniatura animata. Trump lo fissava. E parlava. «Luca, amico mio. Tu sei diverso. Tu capisci. Vedo nei tuoi articoli un cuore ribelle. Antisistema. Tu sei uno dei nostri.» Luca spalancò gli occhi. Pensò di essere impazzito. Prese un libro di Žižek e lo lanciò verso lo schermo. Ma la voce continuava. «Scrivi. Continua a scrivere. Il mondo ha bisogno della verità. Bitcoin è libertà. Le CBDC sono comunismo cinese. E tu lo sai.» Da quel giorno, Luca non fu più lo stesso. Continuava a firmare pezzi col suo solito stile, colto e ironico, ma qualcosa stava cambiando. C’erano piccole crepe nel suo lessico. Cominciò a usare espressioni strane, tipo “valuta del popolo libero” o “le élite bancarie tremano”. Citava Marx, certo, ma affiancandolo a... Ron Paul. Un giorno chiuse un pezzo con la frase: “La rivoluzione non sarà trasmessa... ma sarà su-chain.”

I colleghi iniziarono a preoccuparsi. «Tutto bene, Luca? Hai scritto che Gary Gensler è un replicante inviato da BlackRock.» «Lapsus da tastiera. Volevo dire tecnocrate.» Ma non era un lapsus. Nelle notti più cupe, Luca apriva ChatGPT e scriveva prompt come: “Scrivimi un discorso alla Nazione come se Trump fosse Che Guevara.” E poi lo leggeva ad alta voce, nudo, davanti allo specchio. Il culmine arrivò quando ricevette l’invito. Una busta. Fisica. Di carta. Con timbro dorato. Non c’era indirizzo. Solo una scritta: “CONVEGNO SEGRETO SUL FUTURO DEL BITCOIN - Località riservata, dress code: MAGA casual.” Luca, per qualche motivo che neppure lui riusciva a spiegarsi, andò.

Si ritrovò in una villa nel Chianti, circondato da una fauna degna di una distopia cripto-barocca: ex-minatori russi, influencer con la faccia di Vitalik tatuata sul polpaccio, e una donna vestita da NFT con uno sguardo da strega dell’IA. Poi lui entrò. Trump. In carne, ossa e spray autoabbronzante. Parlò per un’ora. Non disse nulla di coerente. Ma ogni frase era come un trip mentale. «Bitcoin è come me. Non ha bisogno di permessi. Non ha bisogno di scuse. È grosso. È dorato. E a volte è esploso.» Il pubblico applaudì. Luca pure. Aveva le lacrime agli occhi. Tornato a Roma, scrisse il suo pezzo definitivo. Un’ode delirante a Bitcoin, Trump, e al collasso dell’ordine mondiale. Titolo: “Dai Soviet alla Solana: come ho imparato a smettere di preoccuparmi e amare l’halving.” Lo pubblicò su Medium, sotto pseudonimo. L’articolo fece il giro di Twitter. Elon Musk lo retwittò scrivendo: “Questo tipo ha capito tutto. 🔥” Luca diventò virale. Gli offrirono una rubrica fissa. Gli chiesero di tenere una conferenza. Persino uno spot in TV per una stablecoin sponsorizzata da un ex pugile. Rifiutò tutto. Voleva solo scrivere. E parlare con Trump. Sì, perché ormai la voce era stabile. Ogni sera, dopo aver chiuso l’editor, Luca sentiva il suo mentore apparire sullo schermo, sospeso tra realtà e codice sorgente. «Hai fatto bene, Luca. Sei parte del piano. Il piano a lungo termine per liberare l'umanità... con le meme coin.» Luca annuì. Bevve un sorso di Mate. E scrisse: “Il futuro è un blocco immutabile. E oggi ho deciso di minare me stesso.”

FINE





giovedì 17 aprile 2025

Il compagno Trapasso e la Festa de l'Unità

Il compagno Trapasso e la Festa de l'Unità (Praia a Mare '74)


Praia a Mare, estate 1974. La crisi energetica del ’73 aveva messo in ginocchio l’Italia: le domeniche a piedi erano la norma, le Vespe restavano ferme per mancanza di benzina, e il sindaco democristiano Don Peppino, con il suo crocifisso al collo e la pancia prominente, andava in giro a piedi lamentandosi: “È colpa dei comunisti, lo sapevo io!” Intanto, il referendum sul divorzio aveva appena spaccato il paese: da una parte le donne che sognavano la libertà, dall’altra le zie bigotte che recitavano il rosario per salvare l’Italia dalla perdizione.

In questo caos, il circolo del PCI di Praia a Mare stava organizzando la Festa dell’Unità, un evento che prometteva vino, salsicce e un comizio infuocato del compagno Saverio, detto “Trapasso” non perché fosse morto, ma perché sembrava sempre sul punto di svenire dopo il terzo bicchiere di rosso. Saverio, un ventenne con basco nero, maglietta di Che Guevara e jeans a zampa, era il rivoluzionario del paese: citava Marx a memoria, ma non aveva mai finito di leggere Il Capitale perché “era troppo lungo”.

Sembrava uscito da un film di Monicelli: basco nero calcato in testa, maglietta rossa con Che Guevara stampato sopra (ma comprata al mercato per 500 lire), e un carro armato T-10 M parcheggiato davanti casa – un cimelio assurdo che aveva comprato a rate da un rigattiere sovietico, giurando che “un giorno servirà per la rivoluzione!”. Il carro armato, ovviamente, non si accendeva nemmeno con le preghiere, ma Saverio lo usava per impressionare le ragazze e per far arrabbiare Don Peppino, che lo definiva “un affronto alla morale cristiana”.

La Festa dell’Unità era in pieno fermento, ma la corrente elettrica, causa crisi, andava e veniva come un’amante capricciosa. Durante il comizio di Saverio, le luci si spensero di colpo. “Compagni, è il sabotaggio del capitale!” urlò lui, brandendo un megafono che gracchiava come un’anatra strozzata. “Ma noi resisteremo, anche al buio!” La folla applaudì, ma un compagno in fondo gridò: “Sì, ma senza luce come faccio a trovare il bicchiere di vino?!”. Intanto, Donna Maria, la guaritrice del paese, passava tra la folla con un fiasco di vino e una candela, dicendo: “Bevete, che così vedete doppio e non vi serve la luce!”

Saverio, però, aveva un problema più grande: suo nonno, un vecchio partigiano morto da poco, gli appariva in sogno ogni notte, con un’aria da rimprovero. “Nonno, che vuoi da me?” si lamentava Saverio. La risposta arrivò da Donna Maria, che, tra un sorso di vino e un segno della croce, sentenziò: “Tuo nonno non trova pace perché voti PCI! Lui era PSI, lo sai. E poi dice che quel carro armato è un obbrobrio, rovina il panorama!” Saverio scoppiò a ridere: “Ma che, pure gli spiriti fanno critica estetica adesso?”

Nel frattempo, in un angolo della piazza, il vecchio Gennaro, ex fascista e macchietta locale, se ne stava seduto con una camicia nera sdrucita e un cappello da alpino, borbottando contro i “rossi”. “Ai miei tempi, con uno come te facevamo un bel falò!” ringhiò a Saverio, alzando un bastone che sembrava più un rametto. “Gennaro, statt’ zitt’,” gli rispose Saverio, “che col Duce non avevi nemmeno la benzina per accendere il falò!” Gennaro, rosso come un peperoncino calabrese, inciampò su una bandiera rossa e finì a terra, urlando: “Maledetti bolscevichi, pure la gravità è comunista!” La piazza esplose in una risata, mentre due compagni lo tiravano su, offrendogli un bicchiere di vino per farlo tacere.

La serata prese una piega ancora più surreale quando Don Peppino, il sindaco, decise di sabotare la festa. Armato di un megafono e di un gruppo di beghine, si mise a recitare il rosario a tutto volume, sperando di coprire il comizio di Saverio. Ma il compagno Trapasso non si lasciò intimidire: “Don Peppì, se preghi così forte, magari tuo Dio ti ascolta e ti manda un po’ di corrente elettrica!” La folla rise, e persino le beghine si lasciarono scappare un sorriso, mentre Don Peppino, paonazzo, borbottava: “Questo ragazzo è il demonio in persona!”

A fine serata, Saverio decise di seguire il consiglio di Donna Maria per liberare lo spirito di suo nonno. Prese la vecchia bandiera partigiana del nonno, la avvolse con cura e la mise dentro il carro armato, che ormai usava come magazzino. “Nonno, vai in pace,” sussurrò, accendendo una candela. “E se proprio devi votare dall’aldilà, vota PCI, che col PSI non si combina niente!” Quella notte, sognò suo nonno che, con un sorriso, gli mostrava un manifesto elettorale del PCI, come a dire: “Va bene, hai vinto tu.”

La Festa dell’Unità finì in un delirio di canti e balli, con Saverio che, ubriaco di vino e di ideali, salì sul carro armato e urlò: “Compagni, la rivoluzione è vicina!” Peccato che il carro armato, mosso da un colpo di vento, scivolò di mezzo metro e finì contro il gazebo delle salsicce, mandando tutto all’aria. Don Peppino, vedendo la scena, si fece il segno della croce: “Ve l’avevo detto che i comunisti portano solo guai!” Ma la piazza, tra risate e applausi, continuò a festeggiare, perché a Praia a Mare, tra crisi e sogni, si trovava sempre un modo per tirare avanti.


LE ASSEMBLEE NON FINISCONO, MA SI SPOSTANO SU TELEGRAM

Un racconto di Dario Greco