venerdì 12 dicembre 2025

Una cosa che ho imparato se voglio vincere un quiz


Il programma “Chi Vuol Essere, Ma Non Troppo” andava avanti da quindici stagioni e si reggeva soprattutto sull’impreparazione dei concorrenti e sull’enfasi teatrale del conduttore Virgilio Sbruffi. Quella sera il concorrente Ernesto Baggiani, grafico trentenne e amante delle emozioni purché non comportassero rischi reali, era arrivato alla domanda da cinquantamila euro: quale filosofo greco avesse pronunciato la massima “Conosci te stesso”. Eraclito, Talete, Solone o Diogene. Ernesto sbiancò, il pubblico trattenne il fiato, e Sbruffi si dilungò in uno dei suoi silenzi drammatici finché Ernesto, disperato, annunciò che voleva usare l’aiuto da casa. Tutti si aspettavano che chiamasse un parente, un amico, un collega; invece con un tono solenne e ingenuamente suicida dichiarò: “Telefono al professor Massimo Cacciari”. Un’ondata di stupore attraversò lo studio: alcuni applaudirono, altri fecero versi di terrore, e un tecnico si segnò come davanti a un fenomeno sovrannaturale.

La telefonata partì e dopo tre squilli rispose una voce cavernosa: “Pronto”. Ernesto, sudando, annunciò chi era e da dove chiamava, chiedendo aiuto per la risposta. Seguì un silenzio denso, poi il professore esplose in un fraintendimento indignato: “Lei mi chiama ADESSO per una domanda da quiz? Ma mi scusi, lei possiede un cervello funzionante o l’ha messo in pausa per la serata?”. Il pubblico, censurato dalla regia, tratteneva le risate. Ernesto tentò di ripetere la domanda ma il professore continuò a inalberarsi: “Ridurre la tradizione filosofica greca a quattro letterine in un quiz! Ma cos’è questa roba? Ma lei deve STUDIARE, capisce? Studiare!”. Ogni parola era una grandinata metafisica. Il tempo scorreva inesorabile mentre Cacciari denunciava la decadenza dell’Occidente, l’ignoranza televisiva e, implicitamente, anche il povero Ernesto. Quando questi, tremante, chiese almeno un’indicazione rapida, il professore diede il colpo finale: “Sbagli! Sbagli pure! Lezione utile solo se fa male!”. Poi la linea cadde, o forse fu il professore a chiuderla, o forse ancora la realtà decise di interrompersi per autodifesa. Il tempo era scaduto. Ernesto aveva perso la domanda, il premio e circa dieci anni di serenità interiore. Sbruffi gli posò una mano sulla spalla e cercò di consolarlo: “Coraggio, Baggiani, nessuno sopravvive davvero a una sfuriata di Cacciari”.

A fine puntata, mentre lo studio veniva smontato, Ernesto rimase immobile vicino al podio, come se ancora sentisse il rimbombo delle parole del professore nei timpani. Un autore si avvicinò e gli spiegò con tono paterno che esiste una regola non scritta: puoi chiamare l’amico intelligente, il parente confuso, perfino il cugino che sbaglia tutto; ma MAI devi chiamare Massimo Cacciari, perché significa evocare un temporale filosofico che travolge tutto. Ernesto annuì, sconfitto ma un po’ più saggio, e capì la lezione. 

In fondo la morale è semplice: se sei concorrente di un quiz a premi e hai l’aiuto da casa, non rivolgerti al professor Massimo Cacciari. Pè provocà!


Peggio che andar di notte

Peggio che andar di notte

Il signor Menicucci, persona di specchiata correttezza e moderato entusiasmo per la vita, una mattina si svegliò con la sensazione che qualcosa stesse per andare storto. Non terribilmente storto, solo appena un po’, quel tanto che basta a rendere la giornata interessante per chi la vive e leggermente fastidiosa per chi la ascolta raccontare.

Aprì la finestra e si trovò davanti un cielo di un grigio così incerto che non sembrava decidere se voleva piovere, schiarire o dichiararsi neutrale. «Ottimo», commentò Menicucci, «un cielo indeciso mi somiglia». Mentre si allacciava le scarpe, si accorse che una delle due aveva deciso di farsi trovare già slacciata, come se avesse capito che quel giorno non avrebbe sopportato neanche il minimo sforzo.

Quando uscì di casa, inciampò in una foglia secca. Non una radice, non un gradino, non il cane del vicino. Una foglia. «È già peggio che andar di notte», borbottò, non sapendo bene perché. Non era mai andato di notte in alcun luogo particolarmente problematico, ma gli avevano assicurato che la formula si applicava a qualunque situazione infelice.

Camminando verso l'ufficio, incontrò la signora Dombasini, veterana del quartiere e commentatrice non ufficiale del comportamento altrui.
«Signor Menicucci, ha una faccia!» disse lei, come se la faccia fosse un accessorio opzionale.
«Giornata difficile…»
«Poverino. Peggio che andar di notte, eh?»
«Proprio così», rispose Menicucci, felicissimo che qualcuno confermasse le sue intuizioni linguistiche.

Arrivò alla fermata dell’autobus proprio mentre l’autobus si allontanava con aria di chi ha altri impegni più importanti. Menicucci gli corse dietro per tre passi, abbastanza da far credere agli astanti che ci tenesse davvero, ma non abbastanza da sudare.
«Poteva andare peggio», disse a un ragazzo che stava lì.
«Come?»
«Poteva essere notte.»
Il ragazzo lo guardò come si guarda uno che racconta un proverbio senza garanzia di funzionamento.

All’ufficio lo accolse il collega Serafin, noto per il suo entusiasmo ad ansa invertita: più gli succedevano cose buone, più diventava pensoso.
«Menicucci, non abbiamo internet.»
«Ah.»
«E il telefono non funziona.»
«Capisco.»
«E il capo è entrato urlando che oggi vuole efficienza.»
«Meraviglioso», concluse Menicucci. «Siamo ufficialmente peggio che andar di notte.»

A quel punto Serafin si sentì autorizzato a credere che l'espressione fosse una notizia meteorologica, quindi prese la giacca. «Se siamo peggio che andar di notte, io vado a prendere un caffè.»

Durante la pausa, Menicucci pensò che forse sarebbe stato utile capire davvero cosa significasse l’espressione. La sua curiosità pratica lo portò a chiedere al barista:
«Scusi, lei cosa intende quando dice peggio che andar di notte
Il barista, che prendeva le domande filosofiche come complimenti alla qualità del suo caffè, rispose:
«Vuol dire che va tutto a tentoni. Senza luce. Senza sapere dove si mette il piede.»
«Ah, quindi metaforico.»
«Sì, ma anche letterale. Si ricordi che la notte si inciampa più spesso.»

Menicucci annuì. In effetti, la metafora della notte gli sembrava coerente con la foglia secca, l’autobus fuggitivo e l’internet assente. Tutto rientrava in una certa logica pessimista ma ordinata.

La giornata proseguì tra piccoli disastri di routine: la stampante decise di produrre fogli bianchi con la presunzione di essere comunque utile, il capo pretese una relazione che Menicucci non ricordava di aver mai promesso, e qualcuno rubò l’ultimo yogurt al pistacchio dal frigorifero comune. Nessuno confessò il furto, nonostante un interrogatorio spontaneo e gentile condotto dallo stesso Menicucci sotto forma di «se per caso siete stati voi, non preoccupatevi, ma lasciatemi un post-it».

Al tramonto, che era solo un’alba al contrario ma più stanca, Menicucci tornò a casa. Aprì la porta, entrò, si guardò intorno. Tutto era al suo posto, tranne il gatto, che lo guardava con quell’aria da filosofo domestico capace di stabilire la graduatoria delle sciagure con un solo miagolio.

«Be’, caro gatto», disse Menicucci slacciandosi finalmente la scarpa ribelle, «oggi è andata così. Peggio che andar di notte.»
Il gatto lo fissò immobile, poi si voltò e si allontanò con dignità, come se volesse ricordargli che lui, la notte, ci andava spesso e senza mai lamentarsi.

Menicucci sorrise. Si versò un bicchiere d’acqua, a cui l’acqua rispose uscendo dal bicchiere con un entusiasmo imprevisto. Asciugò tutto con rassegnazione e una punta di orgoglio, perché ormai era un esperto dell’argomento.

«Eppure», pensò, «se questa è la notte, ci si vede anche abbastanza bene.»

E concluse che, forse, peggio che andar di notte è solo un modo per dire che ci capita di inciampare nelle nostre stesse foglie secche, mentre la vita ci osserva con l’aria di chi ne sa di più e non ce lo dice.

E nonostante tutto, si può sempre tornare a casa senza bisogno di una torcia.

domenica 7 dicembre 2025

Il Paziente Negativo che diventò Positivo, in senso Negativo

Un paziente attende gli esiti medici e telefona al dottore che però è in galleria, creando una catena di equivoci irresistibili: mesi di vita che cambiano a ogni interferenza, diagnosi ribaltate e il paradosso medico tra “negativo” e “positivo”. Un racconto ironico nello stile di Calvino e Campanile.


Quando il telefono squillò, il signor Malesani era seduto composto sulla sedia del soggiorno, con le mani intrecciate sulle ginocchia e la postura di chi attende un verdetto cosmico. Da tre giorni viveva sospeso in una sorta di nebbia mentale, come una marionetta lasciata a mezz’aria. Si era persino dimenticato di spegnere la moka, che ora ribolliva oltre ogni ragionevole limite. Prese il telefono con l’aria di chi compie un gesto irreversibile. «Pronto? Malesani.» 

All’altro capo della linea sentì un fruscio che sembrava il respiro di un animale marino. Poi una voce, troncata, risucchiata, stiracchiata come un nastro magnetico difettoso. «Sì… Malesani… sono io. Allora, ho qui gli es…» Il signor Malesani si irrigidì. Gli “es…” potevano essere esami. O esiti. O esalazioni. Nel dubbio, trattenne il fiato. «Mi dica, dottore… sono pronto.» Seguì un altro fruscio, poi un boato cupo, come quello di una montagna che inghiotte un villaggio. Forse il dottore era in galleria. O nella bocca di un drago. Era difficile distinguere. «Allora… il risultato è… nega…» Poi silenzio. Solo un fischio lontano. «Negativo?» chiese il signor Malesani, sperando di non risultare troppo speranzoso. La voce del medico esplose in un singhiozzo metallico: «…tivo, sì! Nega… ti… vo.» Il signor Malesani spalancò gli occhi. 

Le mani gli caddero in grembo come due asciugamani bagnati. Possibile? Era salvo? Un’ondata di gioia gli attraversò la pancia come un’anguilla illuminata. «Ma allora, dottore, sto bene?» «Asp… no… non… bene… brut…» Ecco. Tutto nuovamente in frantumi. «Brut…» poteva essere brutto. O bruttissimo. O brutale, il che era peggio. Nel dubbio, tornò a sentirsi morire. «Dottore? Non la sento. Che significa brut…?» 

La voce ritornò, ma spezzata in sillabe che parevano uscite da un trattato di fonologia extraterrestre: «Brut… bri… brioche.» «Brioche?» fece il signor Malesani, aggrappandosi alla parola come a una ciambella in mezzo all’oceano. «No! Accidenti, la galleria… dicevo: brutto seg… seg…» «Segno?» domandò il signor Malesani, ora con il tono di chi sta facendo un cruciverba nel mezzo di un terremoto. «Segnale! Non sento… niente… mi sposto…» Fruscio. Esplosione. Una voce distante: «Ginocchia…» «Ginocchia?» ripeté Malesani, ora convinto che il suo corpo stesse cedendo più rapidamente di quanto immaginasse. «No… no… picco… picc… picchi…» «Picchi?» suggerì, sempre più inquieto. «Picchi… picchietto il telefono! Nulla, non va… Aspetti un…» Poi un taglio improvviso. Silenzio totale. Come quando in un teatro gli attori si immobilizzano e il sipario si blocca a metà. Il signor Malesani rimase così, come sospeso sopra un abisso, finché il telefono squillò di nuovo. «Pronto?» «Sì, Malesani… sono uscito dalla galleria… allora, le dicevo… la situazione… è… pos…» La parola “pos” gli arrivò addosso come un camion carico di mattoni. Pos… positivo? Posizione? Possibile? Possibilmente negativo? L’ambiguità linguistica diventò per lui una lama a doppio taglio, oscillante sopra la testa. «Pos… cosa?» chiese con un filo di voce. «Posi… ho posizionato il telefono vicino al finestrino. Ora si sente meglio?» 

Il signor Malesani strinse i denti. «Sì, ma mi dica dei miei esami. La prego.» Il dottore tossicchiò. Intravide nello sfondo un colpo di vento, forse il treno entrava in un’altra cavità geologica. «Dunque. La prima cosa da dire è che il quadro… è… com… con…» «Come?» chiese Malesani, ansioso. «Consistente.» Il paziente si immobilizzò. “Consistente” suonava come la descrizione di un sugo, non di una vita umana. «Consistente… in che senso?» «Ah, no, scusi. Mi riferivo ai fogli. Sono tanti. Vento… cadono… accidenti.» Seguì un rumore come di carte che volavano nella corrente di un fiume sotterraneo. «Dottore, la prego… io non ce la faccio… ho bisogno di sapere.» La linea frusciò come la coda di un serpente. «Allora… il primo referto dice che c’è… una… les…» Lì fu Malesani a saltare dalla sedia. «Les? Lesione? Lesso? Leso?» «Les… leeeeggerrr…» «Legger… leggero?» domandò con un filo di speranza. «Leggermente… sospetto.» Il mondo gli cadde in testa come una cassa di mandarini. «Sospetto? Cioè… pericoloso?» «No! No! Sospetto nel senso che… potrebbero esserci… segni… compat… compa…» «Compatibili con cosa?» L’attesa gli stringeva la gola. «Compatibili con… compatibili con… dalle analisi non emerge nulla di conclusivo. Bisogna contestualizzare.» Il signor Malesani restò muto. Una specie di ottimismo e di terrore si mescolavano in lui in modo del tutto disordinato, come una macedonia preparata da un ubriaco. Poi il dottore aggiunse: «Comunque non si preoccupi. Peggio di così…» Silenzio. 

Quel “peggio di così” non fu completato, perché il treno entrò nuovamente in galleria. E così, per oltre un minuto, il paziente rimase a contemplare l’ipotesi di avere pochi giorni, forse ore, o forse millenni di vita. Poi la linea tornò, ma con un gracchiare apocalittico. «…o un mese di vita…» Il signor Malesani cadde dalla sedia. «UN MESE?» «Cosa? Non ho detto un mese! Ho detto: “Ho messo via la cartella vita-natural-durante”. È un archivio elettronico. La parola “vita”… ha frainteso tutto.» «Ah.» Malesani aveva il cuore che picchiava come un tamburo di guerra. «Quindi non morirò tra un mese…» «Ma no! Si figuri! Chi glielo ha detto?» «Lei! Adesso! Poco fa!» «Io? Ma se non riesco neanche a sentire me stesso…» La vicenda prese un’altra piega quando un nuovo rumore intervenne: un boato seguito da un sibilo. «Oh, accidenti… adesso… sem… sembra che avrà… sei mesi…» «SEI MESI?» Malesani si coprì la bocca. «Cosa? No! Ho detto: “Il treno si è messo a... sei mesi fa non funzionava così l’impianto audio”. Non capisco come abbia fatto a capire il contrario.» Il paziente, stordito, si sedette con la sensazione che la realtà fosse diventata un elastico tirato troppo forte. «Dottore… la imploro… mi dica chiaramente… quanto… quanto mi resta?» Il dottore inspirò rumorosamente, come chi sta per dire una verità scomoda. «Secondo me… un anno.» 

Il signor Malesani svenne. Poi rinvenne per ragioni puramente narrative. «Un anno?» «Sì, un anno. Cioè… un anno fa ha fatto un controllo simile e non era cambiato nulla. Lo sto confrontando.» «Ah.» Il mondo del signor Malesani oscillava avanti e indietro come un pendolo impazzito. Quando la voce del medico si interruppe di nuovo, la sua immaginazione iniziò a suggerirgli scenari sempre più assurdi: funerali anticipati, iscrizione a corsi accelerati di filosofia orientale, la necessità di vendere il divano-letto. L’intera esistenza sembrava ora un mobile IKEA montato al contrario. Il telefono squillò ancora. «Mi scusi… ora la linea è stabile. Senta: i suoi esami sono… nega…» «Ancora negativo? Ma prima era positivo! O sospetto! O consistente! Dottore, la prego… io sto impazzendo.» «No, Malesani, ascolti: i suoi esami sono “negativi in senso positivo”.» «Come scusi?» «Sono negativi… cioè buoni. Tutto a posto. Nessun problema. Lei sta bene.» Il signor Malesani si immobilizzò. Il suo cervello, ormai trasformato in un labirinto di linee telefoniche immaginarie, cercò di processare la frase. «Quindi… non ho nulla?» «Proprio così.» «E il mese di vita?» «Fraintendimento.» «E i sei mesi?» «Fraintendimento doppio.» «E l’anno?» «Archivio elettronico.» «E la les…» «Lesione? Mai esistita. Volevo dire leggerissima variazione, poi il treno ha fatto un rumore mostruoso e ho perso il filo.» Il signor Malesani respirò, finalmente, come se fino a quel momento avesse inspirato aria con il contagocce. «Quindi… posso considerarmi… sano?» «Sano come un pesce, Malesani. E a proposito…» Nuovo fruscio. Un rumore sordo. Poi: «…pesce… morto…» 

Il signor Malesani lanciò un urlo degno di un melodramma barocco. «MORTO?» «Che morto! Stavo dicendo: “Pesce… morto di invidia”. È un’espressione che uso quando uno sta benissimo. Ma lasci perdere, ogni volta che parlo entra un tunnel.» Il paziente chiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie. «Dottore… posso chiederle un favore?» «Certo.» «Non mi telefoni mai più mentre è in galleria.» «Ha perfettamente ragione. Anzi, ho un’ultima cosa da aggiungere…» Il signor Malesani sogghignò, ormai pronto a qualunque apocalisse telefonica. «Dica pure.» «Il suo stress è alle stelle. Le consiglio qualche giorno di vacanza.» «Pos… negativo?» chiese Malesani, per sicurezza. 

Il medico rise. «Positivissimo.» E la linea, per la prima volta in tutta la giornata, si chiuse in maniera perfetta e limpida. Come un esito veramente negativo, quindi finalmente positivo!

venerdì 19 settembre 2025

Finite le ferie, arrivano i clown

 


Capitolo 1 – Il maestro influencer di Pontedera

Il maestro di arti marziali di Pontedera non era un tipo qualsiasi. Si chiamava Maurizio, ma sui social aveva deciso che il suo nome d’arte fosse Sensei Dragonfire 77, perché “Bruce Lee non avrebbe mai usato un nome banale da anagrafe comunale”. Era permaloso come un gatto che ti graffia se gli tocchi la coda, ma in fondo buono come il pane. Il problema era che, quando qualcuno non la pensava come lui, scattava subito l’offensiva digitale: “Te sei un clown, punto e basta. E io con i clown non ci parlo”.

Il suo tormentone, “clown”, ormai era diventato leggenda. C’era chi sosteneva che un giorno l’avrebbe stampato pure sui kimono della palestra. E forse lo avrebbe fatto, se solo non fosse stato troppo occupato a litigare nei commenti sotto i post del Comune di Pontedera.

Ogni mattina, dopo il cappuccino e la schiacciata con l’uva, accendeva il telefono e iniziava la sua battaglia quotidiana: un duello social contro politici, tifosi di calcio e aspiranti filosofi da tastiera. Nel suo mondo, i social non erano un passatempo, ma un dojo digitale, dove l’onore si difendeva con le emoji arrabbiate e le GIF di Bruce Lee.

Maurizio non amava il calcio. Non lo sopportava. Diceva che era il vero motivo per cui l’Italia stava andando a rotoli: troppa gente a guardare le partite e nessuno a studiare le tecniche del Wing Chun. Ogni volta che qualcuno provava a spiegargli che il calcio “unisce il popolo”, lui sbottava:
— Unisce? Unisce cosa? I clown allo stadio con la birra in mano!

In quel momento alzava le braccia come se stesse recitando una scena di Tarantino, convinto che la sua vita fosse una lunga pellicola di arti marziali girata tra la Valdera e Hollywood.

Capitolo 2 – Clown, Joker e King

Il maestro era convinto che la società intera fosse popolata da clown, come in un romanzo di Stephen King. A volte diceva ai suoi allievi più giovani:
— Ragazzi, vi ricordate It? Ecco, quella roba lì non era fantasia. È un documentario sulla realtà italiana.

Gli studenti ridevano, ma lui non stava scherzando. Al contrario, aggiungeva:
— Io li vedo ovunque. Al bar, in televisione, persino a fare la fila alla posta. Pagliacci! Tutti con i nasini rossi invisibili!

Un giorno un allievo gli fece notare che anche il Joker di Batman era un clown. Il maestro si fermò, incrociò le braccia e rispose:
— Joker almeno ha un codice morale. Malato, ma ce l’ha. Qui invece siamo circondati da clown senza arte né parte. Non hanno nemmeno il fascino del male.

In quei momenti sembrava un predicatore apocalittico, un po’ comico, un po’ tragico, come un personaggio secondario di C’era una volta a Hollywood che però si credeva protagonista.

La sua palestra era piena di poster di Bruce Lee, il suo mentore spirituale. Ogni volta che citava il Maestro, la sua voce cambiava tono. “Be water, my friend”, diceva, anche se poi, due minuti dopo, insultava un utente su Facebook perché aveva scritto che il sushi non era granché.

Le discussioni digitali erano epiche. Una volta litigò per 72 commenti consecutivi con un tifoso della Fiorentina che lo aveva preso in giro dicendo: “Oh Sensei, ma un ti guardi mai una partita?”. Maurizio, furibondo, aveva risposto con un lungo papiro filosofico in cui sosteneva che Bruce Lee avrebbe rotto tutti i palloni con un calcio volante pur di salvare i giovani dall’ignoranza. Alla fine, concluse con il suo solito: “Te sei un clown”.

I follower, divertiti, iniziarono a commentare con GIF di clown ballerini e faccine buffe. Involontariamente, il Sensei stava diventando virale.

Capitolo 3 – Il dojo social e la lotta finale

La palestra del maestro non era grande: due stanze, un tatami consumato e un piccolo ufficio dove teneva la telecamera sempre pronta. Perché ogni allenamento diventava anche contenuto. Lui lo diceva spesso:
— Oggi senza social non sei nessuno. Io vi insegno il Kung Fu, ma vi insegno anche a combattere gli haters.

Il suo sogno era fare un film alla Karate Kid, ma ambientato a Pontedera. Il protagonista sarebbe stato un ragazzino spaesato che trovava nel maestro Dragonfire 77 la guida spirituale. Solo che invece di combattere contro Cobra Kai, si sarebbe scontrato con una gang di ultrà del Pisa Calcio. “La vera lotta è culturale”, diceva il Sensei. “Il nemico non è un dojo rivale, ma l’ignoranza collettiva… e i clown”.

Una volta si spinse ancora oltre. Fece un video su TikTok, vestito con una maschera da clown che aveva comprato al mercato, per denunciare la decadenza del Paese. Con tono drammatico, urlava:
— Finite le ferie, entrino i clown! Ma io non mi arrendo! Io combatterò fino all’ultimo like!

Il video ebbe 50.000 visualizzazioni. Alcuni ridevano, altri lo prendevano sul serio, ma tutti condividevano. Nel suo piccolo, Maurizio era diventato una celebrità. Persino un giornalista locale gli dedicò un articolo: “Il maestro di arti marziali che combatte i clown sui social”.

Eppure, quando la sera chiudeva la palestra, rimaneva da solo a guardare un vecchio DVD di Bruce Lee. Lo guardava con occhi lucidi, come se stesse parlando direttamente a lui.
— Maestro, io ci provo, ma questi clown mi fanno uscire di testa.

La verità era che sotto l’armatura del Sensei influencer, Maurizio restava un uomo buono, convinto che le arti marziali potessero salvare almeno un pezzetto del mondo. E se per riuscirci doveva gridare contro i clown virtuali e sembrare un po’ folle, beh, tanto meglio.

Dopo tutto, come diceva lui:
— Se devo vivere in un film, che almeno sia diretto da Tarantino.

E così, tra un calcio volante e una risata amara, il maestro Dragonfire 77 continuava la sua crociata personale. Il mondo intorno a lui era un circo, ma lui sapeva di avere un compito preciso: allenare la prossima generazione a distinguere i guerrieri veri dai clown travestiti da pensatori.

Perché alla fine, lo sapeva bene, i clown non finiscono mai davvero. Sono sempre lì, pronti a spuntare.
E allora, finite le ferie… entrino i clown.

mercoledì 18 giugno 2025

Luca contro il Deep State (con le tasche piene di Satoshi)



Luca Beltrami scriveva di criptovalute da sei anni. Ma lui, in fondo, odiava le criptovalute. Era un uomo di sinistra. Vero, di quelli veri. Cresciuto tra centri sociali e assemblee interminabili, l’unico wallet che riconosceva era quello della classe operaia. Detestava le cravatte, i fiscalisti, le startup. Parlava ancora di “lotta di classe” mentre l’algoritmo di YouTube gli suggeriva video su Layer 2, staking e CBDC. Eppure, ogni giorno, scriveva articoli su Bitcoin, Ethereum, il futuro dell’economia decentralizzata e, ultimamente, sulle meme coin con il nome di gatti ubriachi. Era diventato una voce autorevole del settore, anche se nessuno sapeva che dietro quei pezzi brillanti, firmati “L. Beltrami”, si nascondeva un anarchico marxista con l’adesivo “Free Assange” sul frigorifero.

Tutto filava liscio, fino al giorno in cui sentì una voce.

Era un pomeriggio come tanti. Luca stava cercando di scrivere un editoriale su un nuovo DEX rivoluzionario quando, all’improvviso, una voce tonante uscì dalle casse del computer. Non Spotify, non un video in background. Una voce viva. «The Fed è il vero nemico, Luca. La tua banca ti odia. E il Deep State controlla la tua caffettiera.» Luca sobbalzò. Fece cadere il bicchiere di Kombucha sul tappetino del mouse. Guardò lo schermo: niente. Tutto normale. Ma poi, in un angolo della finestra di Chrome, comparve un’icona. Una silhouette arancione. Un ciuffo familiare. Era lui. Donald. J. Trump. Ma non un video. No. Una miniatura animata. Trump lo fissava. E parlava. «Luca, amico mio. Tu sei diverso. Tu capisci. Vedo nei tuoi articoli un cuore ribelle. Antisistema. Tu sei uno dei nostri.» Luca spalancò gli occhi. Pensò di essere impazzito. Prese un libro di Žižek e lo lanciò verso lo schermo. Ma la voce continuava. «Scrivi. Continua a scrivere. Il mondo ha bisogno della verità. Bitcoin è libertà. Le CBDC sono comunismo cinese. E tu lo sai.» Da quel giorno, Luca non fu più lo stesso. Continuava a firmare pezzi col suo solito stile, colto e ironico, ma qualcosa stava cambiando. C’erano piccole crepe nel suo lessico. Cominciò a usare espressioni strane, tipo “valuta del popolo libero” o “le élite bancarie tremano”. Citava Marx, certo, ma affiancandolo a... Ron Paul. Un giorno chiuse un pezzo con la frase: “La rivoluzione non sarà trasmessa... ma sarà su-chain.”

I colleghi iniziarono a preoccuparsi. «Tutto bene, Luca? Hai scritto che Gary Gensler è un replicante inviato da BlackRock.» «Lapsus da tastiera. Volevo dire tecnocrate.» Ma non era un lapsus. Nelle notti più cupe, Luca apriva ChatGPT e scriveva prompt come: “Scrivimi un discorso alla Nazione come se Trump fosse Che Guevara.” E poi lo leggeva ad alta voce, nudo, davanti allo specchio. Il culmine arrivò quando ricevette l’invito. Una busta. Fisica. Di carta. Con timbro dorato. Non c’era indirizzo. Solo una scritta: “CONVEGNO SEGRETO SUL FUTURO DEL BITCOIN - Località riservata, dress code: MAGA casual.” Luca, per qualche motivo che neppure lui riusciva a spiegarsi, andò.

Si ritrovò in una villa nel Chianti, circondato da una fauna degna di una distopia cripto-barocca: ex-minatori russi, influencer con la faccia di Vitalik tatuata sul polpaccio, e una donna vestita da NFT con uno sguardo da strega dell’IA. Poi lui entrò. Trump. In carne, ossa e spray autoabbronzante. Parlò per un’ora. Non disse nulla di coerente. Ma ogni frase era come un trip mentale. «Bitcoin è come me. Non ha bisogno di permessi. Non ha bisogno di scuse. È grosso. È dorato. E a volte è esploso.» Il pubblico applaudì. Luca pure. Aveva le lacrime agli occhi. Tornato a Roma, scrisse il suo pezzo definitivo. Un’ode delirante a Bitcoin, Trump, e al collasso dell’ordine mondiale. Titolo: “Dai Soviet alla Solana: come ho imparato a smettere di preoccuparmi e amare l’halving.” Lo pubblicò su Medium, sotto pseudonimo. L’articolo fece il giro di Twitter. Elon Musk lo retwittò scrivendo: “Questo tipo ha capito tutto. 🔥” Luca diventò virale. Gli offrirono una rubrica fissa. Gli chiesero di tenere una conferenza. Persino uno spot in TV per una stablecoin sponsorizzata da un ex pugile. Rifiutò tutto. Voleva solo scrivere. E parlare con Trump. Sì, perché ormai la voce era stabile. Ogni sera, dopo aver chiuso l’editor, Luca sentiva il suo mentore apparire sullo schermo, sospeso tra realtà e codice sorgente. «Hai fatto bene, Luca. Sei parte del piano. Il piano a lungo termine per liberare l'umanità... con le meme coin.» Luca annuì. Bevve un sorso di Mate. E scrisse: “Il futuro è un blocco immutabile. E oggi ho deciso di minare me stesso.”

FINE





giovedì 17 aprile 2025

Il compagno Trapasso e la Festa de l'Unità

Il compagno Trapasso e la Festa de l'Unità (Praia a Mare '74)


Praia a Mare, estate 1974. La crisi energetica del ’73 aveva messo in ginocchio l’Italia: le domeniche a piedi erano la norma, le Vespe restavano ferme per mancanza di benzina, e il sindaco democristiano Don Peppino, con il suo crocifisso al collo e la pancia prominente, andava in giro a piedi lamentandosi: “È colpa dei comunisti, lo sapevo io!” Intanto, il referendum sul divorzio aveva appena spaccato il paese: da una parte le donne che sognavano la libertà, dall’altra le zie bigotte che recitavano il rosario per salvare l’Italia dalla perdizione.

In questo caos, il circolo del PCI di Praia a Mare stava organizzando la Festa dell’Unità, un evento che prometteva vino, salsicce e un comizio infuocato del compagno Saverio, detto “Trapasso” non perché fosse morto, ma perché sembrava sempre sul punto di svenire dopo il terzo bicchiere di rosso. Saverio, un ventenne con basco nero, maglietta di Che Guevara e jeans a zampa, era il rivoluzionario del paese: citava Marx a memoria, ma non aveva mai finito di leggere Il Capitale perché “era troppo lungo”.

Sembrava uscito da un film di Monicelli: basco nero calcato in testa, maglietta rossa con Che Guevara stampato sopra (ma comprata al mercato per 500 lire), e un carro armato T-10 M parcheggiato davanti casa – un cimelio assurdo che aveva comprato a rate da un rigattiere sovietico, giurando che “un giorno servirà per la rivoluzione!”. Il carro armato, ovviamente, non si accendeva nemmeno con le preghiere, ma Saverio lo usava per impressionare le ragazze e per far arrabbiare Don Peppino, che lo definiva “un affronto alla morale cristiana”.

La Festa dell’Unità era in pieno fermento, ma la corrente elettrica, causa crisi, andava e veniva come un’amante capricciosa. Durante il comizio di Saverio, le luci si spensero di colpo. “Compagni, è il sabotaggio del capitale!” urlò lui, brandendo un megafono che gracchiava come un’anatra strozzata. “Ma noi resisteremo, anche al buio!” La folla applaudì, ma un compagno in fondo gridò: “Sì, ma senza luce come faccio a trovare il bicchiere di vino?!”. Intanto, Donna Maria, la guaritrice del paese, passava tra la folla con un fiasco di vino e una candela, dicendo: “Bevete, che così vedete doppio e non vi serve la luce!”

Saverio, però, aveva un problema più grande: suo nonno, un vecchio partigiano morto da poco, gli appariva in sogno ogni notte, con un’aria da rimprovero. “Nonno, che vuoi da me?” si lamentava Saverio. La risposta arrivò da Donna Maria, che, tra un sorso di vino e un segno della croce, sentenziò: “Tuo nonno non trova pace perché voti PCI! Lui era PSI, lo sai. E poi dice che quel carro armato è un obbrobrio, rovina il panorama!” Saverio scoppiò a ridere: “Ma che, pure gli spiriti fanno critica estetica adesso?”

Nel frattempo, in un angolo della piazza, il vecchio Gennaro, ex fascista e macchietta locale, se ne stava seduto con una camicia nera sdrucita e un cappello da alpino, borbottando contro i “rossi”. “Ai miei tempi, con uno come te facevamo un bel falò!” ringhiò a Saverio, alzando un bastone che sembrava più un rametto. “Gennaro, statt’ zitt’,” gli rispose Saverio, “che col Duce non avevi nemmeno la benzina per accendere il falò!” Gennaro, rosso come un peperoncino calabrese, inciampò su una bandiera rossa e finì a terra, urlando: “Maledetti bolscevichi, pure la gravità è comunista!” La piazza esplose in una risata, mentre due compagni lo tiravano su, offrendogli un bicchiere di vino per farlo tacere.

La serata prese una piega ancora più surreale quando Don Peppino, il sindaco, decise di sabotare la festa. Armato di un megafono e di un gruppo di beghine, si mise a recitare il rosario a tutto volume, sperando di coprire il comizio di Saverio. Ma il compagno Trapasso non si lasciò intimidire: “Don Peppì, se preghi così forte, magari tuo Dio ti ascolta e ti manda un po’ di corrente elettrica!” La folla rise, e persino le beghine si lasciarono scappare un sorriso, mentre Don Peppino, paonazzo, borbottava: “Questo ragazzo è il demonio in persona!”

A fine serata, Saverio decise di seguire il consiglio di Donna Maria per liberare lo spirito di suo nonno. Prese la vecchia bandiera partigiana del nonno, la avvolse con cura e la mise dentro il carro armato, che ormai usava come magazzino. “Nonno, vai in pace,” sussurrò, accendendo una candela. “E se proprio devi votare dall’aldilà, vota PCI, che col PSI non si combina niente!” Quella notte, sognò suo nonno che, con un sorriso, gli mostrava un manifesto elettorale del PCI, come a dire: “Va bene, hai vinto tu.”

La Festa dell’Unità finì in un delirio di canti e balli, con Saverio che, ubriaco di vino e di ideali, salì sul carro armato e urlò: “Compagni, la rivoluzione è vicina!” Peccato che il carro armato, mosso da un colpo di vento, scivolò di mezzo metro e finì contro il gazebo delle salsicce, mandando tutto all’aria. Don Peppino, vedendo la scena, si fece il segno della croce: “Ve l’avevo detto che i comunisti portano solo guai!” Ma la piazza, tra risate e applausi, continuò a festeggiare, perché a Praia a Mare, tra crisi e sogni, si trovava sempre un modo per tirare avanti.


LE ASSEMBLEE NON FINISCONO, MA SI SPOSTANO SU TELEGRAM

Un racconto di Dario Greco