martedì 26 luglio 2011

Amy Winehouse Morte standard di una rockstar

Anche nella morte ci sono le categorie. E tra tutte queste categorie, c’è la morte da rockstar. All’interno di essa rientrano casi come quello di Janis Joplin, Elvis, Jim Morrison, Jimi Hendrix. Tutti loro hanno fatto la stessa fine. Distrutti dall’alcol, dalle droghe, dai farmaci e da se stessi. Quella famosa autodistruzione che trae origine dalla letteratura, dai poeti maledetti, da quella vita da bohemién affrontata sulle rive della Senna, sulle strade disperate, perse nelle notti clandestine, in quei luoghi della penombra, dove solo alcune anime trovano rifugio. Nascosti in un lamento che si perde nel tempo. E quello era il lamento di Amy Winehouse.

Chi era Amy? Un’artista sfruttata dallo star system o un’anima della penombra? Entrambe le cose. Amy Winehouse era una voce che si propagava nelle viscere del disagio, del tormento. Un parabola biblica. Un esodo di dolore alla ricerca di una terra promessa messa in vendita, svenduta al costo di un terreno non edificabile. Amy era un sorriso nel pianto, una voce di lacrime che conteneva tutte quelle voci di coloro che hanno vissuto nel tormento e nel martirio. L’avete mai vista su un palco? I suoi gesti, i suoi occhi tatuati di nero che guardavano il niente, verso il vuoto, alla ricerca della luce in un’epoca di buio.

Amy Winehouse, una donna vera, capace di salire su un palco da ubriaca, cantare fuori tempo e piangere. Regalare al pubblico pagante le sue lacrime, quel disagio che invadeva corpo e spirito, quello sguardo che implorava comprensione. Una donna autentica in un mondo fatto di facciate e falsità. In un mondo che non ha carezze per la disperazione degli altri, ma solo quotazioni in borsa. Quel disagio svenduto, il mondo dell’accaparrarsi il tutto, dell’arrabattarsi scalando vette d’illusioni, il mondo delle cure dimagranti, della Dea Bellezza, della Dea Ipocrisia, del Dio Successo. Lei che combatteva contro i discografici, contro tutti quelli che la spingevano sul palco, lei che cercava se stessa in un bicchiere.

Amy combatteva la sua rivoluzione nelle stanze d’albergo, nei camerini, in quella casa nella quale è stata trovata senza vita. Una rivoluzione cantata e allo stesso tempo taciturna. Una rivolta di sensi, di follia, di amori perduti, di spasimi, narici arrossate, amaro in gola, palloni aerostatici nella mente ed elefanti nel sonno, vomito, emicrania, palchi, folle, biglietti, strumenti scordati, voce, cori, orrore, bellezza, verità, oscurità, hall di alberghi, aeroporti, tre dischi pubblicati, un ex-marito (appena risposato!), case discografiche infami, mostri nel comodino, anarchica schiavitù!

Lei che si è guadagnata il posto al fianco di figure mitiche dell’immaginario pop come Marylin, Jayne Mansfield, Heath Ledger. Una figura tragica e romantica che ha rifiutato di diventare sponsor di una marca di vodka per entrare nell'olimpo delle rock star morte giovani. Quella voce soul, soffocata a ventisette anni. Il ventisette che ritorna. Numero di un capitolo che parla di gente come Jim Morrison, morti alla stessa età. La sua morte che ricorda un tempo passato, un’epoca che si adatta male all'epoca di twitter e dei social network. Lei che viveva nel mondo del “cane mangia cane”, lei che viveva in un mondo nel quale le persone trascorrono le giornate su facebook, nel mondo dei personaggi inventati, dei nickname, delle password, delle casalinghe erotomani su badoo, nel mondo dei vigliacchi.

Amy era il tutto, il niente, l’arrivederci, il sarà, l’addio.

Addio Amy, ci vedremo nell’al di là e brinderemo nuovamente con calici di vento soffiati da Dio!


Davide Imbrogno

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