Datemi un trolley e vi sovvertirò una mensa
Ѐ odore di oscar o fruscio di pilu? Cazzu, cazzu. “Questo è cinema, questo è l’intrattenimento: libertè, egualitè, incassabilitè”, per dirla con Cetto. Qualunquemente, parole sante. Si cita l’assurdo perché il paradosso è qui. Qui dove le band suonano nelle sagre della purpetta.
Qui dove c’era una volta un festival che invadeva di cultura la città ed è stato regalato ad un signore con seri problemi di fonetica, ed è per questo, quindi, che gli attori hanno lacunose dizioni: per emulare la voce di colui che possiede il culo da leccare. Ovvio. Certo, anzi Cetto. Lo spettacolo è clientelare. Lo spettacolo lo paga il sindaco. Lo spettacolo funziona se è pieno di pilu. Altrimenti perché la gente va dove c’è gente? Altrimenti perché il pubblico arriva a fine concerto? Per il pilu. Il pilu che cerca stabilità e status symbol e si tramuta in donna in cerca di marito, poco prima della trentina, mollando il rock per entrare, in lista, in quel club che è la negazione della club-culture. Uniformi da premio Omsa, quando va bene, scarponi anti-femminili, quando va male (senza contare il gambaletto). Un riciclo generazionale obbligato.
Dall’altra parte c’è il mondo dei giovani. L’università. Mai ateneo italiano è stato più colmo di professori così precocemente in cattedra. Prodigi? Prodigiose prassi da clientela semmai. In quel disegno socio-economico che trova ne “I fiumi di porpora” il copione da seguire. Si riproducono tra di loro. Ma, di contro, nessun trauma da post-liceo: il campus. Accomodante paese nella città. Affascinante pilu null’uovo. Datemi un trolley e vi sovvertirò una mensa. Un torre di Babele che è luogo di dialetti simili incrociati in uno scambio tra culture che differiscono di 200 km massimo. Ecco. Questo è il senso. Valigie e bus di pilu. Dormitori di pilu, oppure pilu uso foresteria e minchie a forma di mattone. Cantieri per il pilu. Giovediamoci di pilu. Tarantelle di pilu, in virtù di conservatori alternativi per forza.
Oasi o miraggio? Evoluzione o involuzione? Cover. Coperture. La lavatrice c’è? I panni sporchi non si lavano più in famiglia. Tutto si risciacqua nell’acqua stantia delle prassi. Suonano gli U2, ma non sono gli U2, i più longevi cantano i Gang Of Four da decenni. Bravi. Glielo urlano le matricole. Glielo ribadiscono gli altri invitati. Perché tra un concerto e una festa di compleanno la differenza è solo la torta. Altrimenti perché vedere lo stesso gruppo dieci volte l’anno? Altrimenti perché la band non suona mai oltre il Po’? E la si suppone, dicendo così, già interregionale, invece che confinata tra fratelli, sorelle, ex e consuetudini da jet-set su scala microscopica. Sullo stesso piano, anzi gradino, il dj che è p.r. e non artista, ed anche grafico, spammer, pasquetta, natale, capodanno. Ricordati di spettacolarizzare le feste. Meeting tra migranti non costretti al cambio di usi e vestiario su base generazionale, non costretti al compleanno senza torta. Beati loro perché di questi è il regno dei cieli. Accaparrano punti Ryanair su due tratte e due soltanto: quelle che altrove c’erano già 40 anni fa. Volano alto e ci proteggono da lassù. Eccellenze.
Uno su mille ce la fa. Così per un Brunori che vale ne spuntano altri 10 di cantautori autoctoni, l’anno dopo. A giugno o ad ottobre, come i funghi. Emulazione o dozzinalità esemplare? Talvolta è un’inversione di marcia, come chi torna, convinto di poter cambiare qualcosa. Uno su mille ce la fa, gli altri preferiscono supporsi primi in Gallia che ultimi a Roma. Finiranno a fare spettacoli di compleanno per fratelli, sorelle, ex e consuetudini. Oppure si mischieranno ai premi Omsa in club che sono la negazione della club-culture, cercando di fare una scalata sociale, o, almeno, su montagne di pilu.
Stefano Cuzzocrea
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